Si chiuderà il 27 settembre al Palazzo dei Diamanti a Ferrara la mostra Un artista chiamato Banksy. Non perdete l’occasione in questi ultimi giorni di scoprire il talento di un artista misterioso ma sicuramente tra i più importanti esponenti della Street Art. Banksy rappresenta la miglior evoluzione della pop art, l’unico che ha connesso le radici del pop, la cultura hip hop, il graffitismo Anni ’80 e i nuovi approcci del tempo digitale. Ecco il racconto della nostra Anna Martinenghi che ha visitato per noi la mostra
di Anna Martinenghi
Vedere una mostra di Banksy è il primo paradosso.
Perché l’arte di Banksy – che la maggior parte dei media si ostina a chiamare Bansky e che invece si pronuncia come “banca” in inglese e “sì” in italiano – nasce per strada, su muri, cartelli, vecchi palazzi. Nasce per scardinare, contestare, irridere un sistema, da cui l’artista vuole prendere distanza, nasce per star fuori dal mondo dell’arte dominato dai mercati, nasce per replicarsi a furia di stencil e bombolette, nasce per finire su magliette e copertine di dischi.
Un artista “scomodo” e provocatorio
Banksy lavora scomodo, dove le cose accadono: a Betlemme decora un albergo con vista sul muro eretto da Israele per dividere la città, definito come “l’hotel con la vista più brutta del mondo”. Si inventa per trentasei giorni Dismaland – letteralmente un parco lugubre e tetro, agli antipodi di Disneyland -, installazione comprensiva di diciotto attrazioni, fra cui uno scivolo ricavato da un mezzo antisommossa, una ruota panoramica decrepita, una giostra con macellaio, una vasca con barconi radiocomandati, una girandola per fornire energia elettrica. Il parco era visitabile e condotto da guide scontrose e maleducate.
Di recente l’artista ha finanziato (e decorato) una nave – la Louise Michel – per soccorrere i migranti nel Mediterraneo.
Banksy si diverte, ci irride e genera consenso dal dissenso
Eppure, paradosso ammesso dallo stesso artista, è il suo stesso dissenso a promuovere la sua arte, a solleticare i collezionisti che mettono insieme mostre private e ripropongono ciò che è nuovo con canoni superati.
Diciamo che a questo punto l’artista, che l’anonimato in tempo di ego smisurati e tronfi ha già reso leggenda, decide di divertirsi: appendendo suoi pezzi irriverenti nelle gallerie più blasonate – scoperti spesso giorni dopo, ma che nessuno avrà il coraggio di buttare -, si fa scacciare come ambulante abusivo a margine della Biennale d’Arte di Venezia, inventa meccanismi per ridurre in coriandoli una sua opera appena battuta all’asta per un milione di sterline, decora il bagno di casa sua con i suoi amati ratti, durante il lockdown.
Chi è Banksy?
Che sia un poco di buono, come leggenda narra, una casalinga, un tecnico di fotocopiatrici o uno studente espulso dal liceo, Banksy lavora dal basso e sale altissimo, fa esplodere bombe di provocazione e si ricompone ordinato sotto i nostri occhi in sale di musei stupendi (in Italia ora al Palazzo dei Diamanti a Ferrara e a Roma al Chiostro del Bramante).
Non sappiamo “se ci è o se ci fa”, se è solo un Brand dietro cui si nasconde un team ben organizzato e mercenario oppure il tentativo puro di dimostrare che si può fare arte in altro modo e si può raccontare in scenari non tradizionali e con linguaggi nuovi e sempre sorprendenti.
Finché rimarrà sfuggente e irraggiungibile Banksy questo dubbio ce lo regalerà e avere dubbi di questi tempi è dono non da poco. Un seme di consapevolezza.
Dicono si chiami Robin, come il fido compagno di Batman, che facendo il verso a una recente canzone “nessun vuol essere” e di cui sappiamo ancora meno.
“Io dico a me stesso che uso l’arte per promuovere il dissenso, ma forse sto piuttosto usando il dissenso per promuovere la mia arte” (Banksy)