È uscito in Italia il 24 maggio scorso, a meno di un anno di distanza dall’uscita in Francia, il nuovo libro di Carrère, Yoga (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, Fabula, Adelphi, pp. 312). Ogni definizione per questo suo nuovo scritto risulta vana. Difficile classificarlo come romanzo o come saggio. Forse, prudentemente, sarebbe meglio chiamarlo memoir, o confessione di un uomo che si mette a nudo svelando la melanconia che lo ha sempre accompagnato, la depressione e il ricovero ospedaliero, i suoi amori tra cui, appunto, lo yoga; e lo scrittore, Carrère, che ci tiene sempre in bilico tra finzione e realtà pur avendo affermato che “la letteratura è il luogo in cui non si mente”. Di certo qui si ha a che fare con la metaletteratura e con una scrittura di livello sempre puntuale, fluida e appassionante che solo pochi grandi sanno consegnarci
di Mirella Vitalini
Che cosa non è stato ancora detto di questo libro? A prescindere dagli osanna e dalle stroncature, è evidente il fatto che questo testo “sguscia” da tutte le parti sia per quanto riguarda i temi, la struttura e l’autenticità della storia.
Yoga: una definizione che sfugge ma che Carrère insegue
I primi due capitoli sono i più aderenti al tema dello Yoga, illustrando il primo l’esperienza del seminario Vipassana fino la partenza dovuta all’attentato a Charlie Hebdo; mentre il successivo termina con un altro ritiro fatto dopo alcuni mesi. Ambedue le esperienze risultano insoddisfacenti per Carrère, se miravano a condurre alla serenità data dall’armonia tra corpo e mente, tra istanze positive e negative, come insito nel termine stesso yoga, radice indoeuropea che allude al giogo in grado di tenere a freno due bestie indisciplinate e di carattere opposto. Anzi, l’intenzione originaria nello scrivere il libro era proprio quella di illustrare i benefici dello yoga, al di là del piano fisico (erroneamente viene considerata una disciplina sportiva). Uno yoga di tipo meditativo, insomma; ma qui si trova il primo intoppo: invece di fermarsi a una definizione, Carrère viene preso da una specie di frenesia definitoria, che prosegue anche nei capitoli successivi, con il risultato di procedere dall’ambiguità all’inconsistenza.
Nulla può salvarci dall’infelicità; la meditazione non conduce al Nirvana che si raggiunge inaspettatamente
Si può però pensare che la comprensione di che cosa significhi meditare possa essere attinta da esempi pratici, esperiti durante il seminario, ma Carrère stesso insinua una serie di dubbi. Innanzitutto ironizza sul metodo, basato sul silenzio e l’immobilità assoluti, negata ogni possibilità d’interrompere l’esperienza, in un regime tra il convento e il carcere. L’autore, al contrario, evidenzia come nulla può salvarci dall’infelicità umana, vedi il suo pianto – al ricordo di un toccante episodio successo a scuola – e quello del suo vicino.
Poi racconta come un’esperienza sessuale e passionale molto intensa gli sia valsa più che la meditazione a raggiungere il Nirvana. A questa fa da contraltare il comico episodio di due adepti del seminario che, approfittando di uno spazio fuori controllo, si erano goduti un incontro omosessuale, poi raccontato agli amici, curiosi di sapere dove e come fossero diventati una coppia.
Un testo metaletterario contrario all’iniziale intenzione dell’autore di scrivere solo di yoga
Più o meno sulla stessa linea il finale del capitolo successivo: lo scrittore ha potuto tornare a Parigi per scrivere il necrologio di un suo amico morto nell’attentato a Charlie Hebdo. Se ci aspettavamo un’inquadratura storico-politica restiamo delusi: ci si mantiene sul privato, pur nella toccante immagine dell’obitorio, dove sono vicini i cadaveri della vittima e di un attentatore.
Poi il narratore torna ancora sullo yoga, dandone giudizi positivi, limitati tuttavia dalla confessione che nel seminario Vipassana il suo interesse era concentrato su come descrivere quella esperienza, per l’annosa abitudine di domandarsi: “Qual è la storia? L’esatto contrario della meditazione, che mira proprio, dodicesima definizione, a smetterla di raccontarsi storie”.
A questo punto nasce il sospetto che questo libro sia un romanzo sui generis, e precisamente un testo metaletterario. Più volte Carrère vi ribadisce la sua intenzione di elaborare un volumetto sullo yoga e segnala la sua frustrazione nel non riuscire a scrivere nel periodo della sua pazzia. Risulta chiaro da tutto questo come sia privo di senso chiedersi se in Yoga lo scrittore sia venuto meno alla verità fattuale, dopo aver affermato, attraverso l’importante intervista a Wyatt Mason, nel terzo capitolo, che la letteratura è il luogo in cui non si mente. Carrère precisa che in questo romanzo ha mentito solo per omissione non avendo avuto una liberatoria da un personaggio fondamentale nella Storia della sua pazzia.
Quanto alla accusa di aver alterato la realtà per ciò che riguardava il suo divorzio, poi per non aver rivelato che nei giorni bui all’ospedale Sainte-Anne non era solo e, infine, che invece di quattro mesi aveva trascorso solo quattro giorni di volontariato a Leros; bisogna chiedersi se sia pertinente alla letteratura il mentire o meno – tanto più in un’epoca dominata dallo scambio tra vero o falso a tutti i livelli – cioè se di uno scritto letterario sia appropriato dare un giudizio etico.
Di quale verità si fa portatore lo scrittore?
Ebbene, la verità di uno scrittore è certo diversa da quella dell’uomo comune. Leggendo il resoconto dell’internamento in ospedale e la sofferenza atroce dovuta all’elettroshock, percorrendo la dolorosa vicenda dei ragazzi rifugiati e il coté inquietante della loro insegnante, abbiamo forse la sensazione che si tratti di qualcosa di meno vero della morte (02/01/2018) di Paul Laurens (cap. V) per trentacinque anni amico ed editore di Carrère?
Ritornando alla forma metanarrativa va considerata caratterizzante di tutto il testo, avvalorata anche dalla quantità e varietà di racconti (non mancano anche film, poesie, brani musicali – indimenticabile la polacca di Chopin) utilizzati nel corso della narrazione, non solo come citazioni, ma anche ri-raccontati dalla voce dello scrittore. Ci sono favole infantili, come la “caprettina” del signor Seguin di Daudet, la cui brutta fine gli sembra precorrere la sua, parabole come Il ladro, di cui si serve per non “interrogarsi troppo sulla purezza delle proprie intenzioni”. Altri racconti, La storia dell’asceta Sangamaji e quella degli Ayurvedici sono funzionali a evidenziare come il distacco yoga dalle passioni e dai problemi umani conduca in casi estremi alla totale mancanza di umanità.
Inoltre, più volte Carrère si autocita, in particolare da I baffi, Il regno, Romanzo russo e da Vite che non sono la mia di cui arriva a riprodurre nel penultimo paragrafo del libro un’intera pagina, come esempio di un bilancio esistenziale positivo, all’epoca, fallimentare, invece, nella sua condizione presente.
Ma gli esempi letterari più consistenti e significativi scelti da Carrère indiziano la sua convinzione che la letteratura sia fiction. Sono racconti fantastici, o fantascientifici, di autori come Philip Dick o George Langelaan, di cui Carrère finge di aver trovato una raccolta “per caso”, nella biblioteca della sua amica Erica. Ne trae La mosca, già citata nel testo (metamorfosi di uno scienziato in mosca) e soprattutto Regressione, che Carrère ri-narra per intero. Di quest’ultimo racconto, che interpreta la nascita come esito ultimo della morte, al di là dell’originale interpretazione della metempsicosi, è evidente il collegamento con la dialettica vita-morte del libro. Chiara funzionalità al romanzo presenta anche il racconto tratto da L’incertezza dei sogni di Roger Callois, in cui Carrère confessa il medesimo sgomento del protagonista di fronte alla possibilità, insinuata dall’amnesia, che la realtà sia solo un nostro sogno.
Proprio per guarire dall’amnesia, effetto secondario dell’elettroshock, viene utilizzato ancora un espediente letterario; Carrère dice che gli era stato suggerito di esercitarsi a imparare a memoria delle poesie. Così, diverse poesie – tra l’altro bellissime – compaiono in misura cospicua a filtrare letterariamente i suoi stati d’animo nella parte finale del libro.
Yoga è consigliato ai cultori della letteratura, a chi pensa che romanzi autobiografici siano difficili, a chi apprezza la molteplicità degli spunti e la fluidità della scrittura.