Assandira è uscito ieri 9 settembre distribuito da Lucky Red dopo essere stato presentato nei giorni scorsi fuori concorso alla 77esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica 2020 organizzata come ogni anno dalla Biennale di Venezia. E già qui viene subito da chiedersi perché un film così dannatamente bello, quasi da far male per la crudezza e al tempo stesso la potenza della storia, non sia entrato di diritto nel concorso cinematografico più importante d’Italia
di Valeria Cudini
Un adattamento del romanzo omonimo di Giulio Angioni
Il film è un libero adattamento dell’omonimo romanzo dello scrittore e antropologo Giulio Angioni edito da Sellerio. Sceneggiatura, regia e parte della produzione – condivisa con Elisabetta Soddu – sono affidate a Salvatore Mereu che in tutti i suoi film (ha vinto nel 2003 il David di Donatello con il suo primo lungometraggio Ballo a tre passi) ha sempre parlato della sua terra, la Sardegna, e del difficile rapporto tra tradizione e modernità.
L’ambientazione è l’entroterra sardo fatto di tradizioni e di fatica
Assandira, come viene detto nel film, “è una parola antica che c’è sempre stata”, indica un luogo fisico – ma anche metafisico – nell’entroterra sardo che nulla ha a che vedere con la Sardegna a cui tutti noi siamo abituati. In questa storia non ci sono le spiagge bianchissime e tutte le sfumature del blu e del verde del mare sardo, né tanto meno i resort che ospitano i Vip. Qui c’è un ovile, una terra aspra rimasta intatta dove il tempo sembra essersi fermato (anzi pare proprio di essere fuori dal tempo), e un pastore, Costantino, interpretato da un immenso Gavino Ledda (ex pastore scrittore nel 1975 di Padre padrone, un romanzo che al tempo fece molto scalpore e di cui i fratelli Taviani ne fecero un film che vinse la Palma d’Oro a Cannes) che recita quasi tutto il film in dialetto sardo.
Il protagonista è Costantino, un pastore che ha perso tutto
Costantino/Ledda è il vero protagonista della storia, il centro da cui parte la narrazione (è infatti anche la voce narrante) e con cui inizia il film. La scelta di Mereu è di mettere subito il lettore nella condizione di capire quanto è accaduto o almeno è questo che gli si vuol far credere. Il film si apre su Costantino inzuppato d’acqua sotto una pioggia battente. L’atmosfera è cupa, inquietante, il tono della voce narrante è intriso di dolore nel raccontare e nel mostrarci a poco a poco la desolazione che avvolge l’agriturismo Assandira devastato dalla furia delle fiamme che la notte precedente si sono mangiate tutto.
Nelle parole di Costantino, nell’uso del dialetto e nell’espressività del suo volto segnato come una mappa dal sole, dal tempo, dalla fatica e ora dal dolore per quanto gli è capitato, lo spettatore coglie e sente su di sé tutta la disperazione di un uomo che non ha più niente, ha perso tutto, anche il figlio. E le parole di Costantino ci guidano da subito dentro il mistero che avvolge questa storia: si parla di senso di colpa e di vergogna e si percepisce che dietro quelle fiamme si cela un mistero terribile.
Il lungo flashback racconta della nascita dell’agriturismo
Sul posto giungono i Carabinieri che cominciano le indagini insieme al magistrato Pestis (l’attore di teatro Corrado Giannetti) che chiede a Costantino di raccontargli i recenti fatti accaduti.
Tramite un lungo flashback, Costantino ci riporta a come è nata a Mario (Marco Zucca, bravissimo interprete), suo figlio, e alla sua giunonica nuora tedesca, Grete (una bravissima Anna Köning), l’idea di trasformare quel luogo in un agriturismo “etnografico” per turisti stranieri in cerca di una Sardegna rurale in cui rivivere tradizioni antiche e prender parte a rituali, spettacoli e giochi di bassa lega. In principio Costantino prova a opporsi all’idea dell’agriturismo, ma la forza di convincimento della valchiria Grete e le parole incoraggianti del figlio lo mettono in minoranza. L’agriturismo viene costruito, eppure Costantino ha intuito che il seme del male è stato piantato.
Si entra nel vivo e il film svela il suo lato noir
Ed è da quel momento in poi che lo spettatore viene catapultato nella dimensione noir del film. La tensione sarà un crescendo, un climax ascendente di cui si avverte a poco a poco che si giungerà a un punto di rottura.
Un’esplorazione dei sentimenti più nascosti dell’animo umano
“Assandira è un percorso nella conoscenza della natura umana, un tentativo di esplorazione dei sentimenti più reconditi, silenti, e che se anche tenuti a bada finiscono però per muovere le cose e gli uomini” ha spiegato il regista.
Una storia sarda che assume i caratteri di universalità
Assandira è un film che ti fa male, che ti scuote nelle parti più recondite dell’anima. È una storia autentica di sofferenza in cui si avverte però tanto amore per una terra che ha un’identità precisa e che è fatta, nonostante tutto, di una materia granitica. Una storia sarda ma che assume i toni di storia universale per tutti i simboli di cui è costellata che non sfociano mai nella retorica.
Un film sui conflitti ancestrali, sui valori perduti e sulla corruttibilità dell’uomo
Assandira racconta dell’eterno conflitto tra tradizione e innovazione, tra padri e figli e quindi tra diverse generazioni. È anche spunto di riflessione profonda sulle “miserie” dell’uomo e su quanto siamo facilmente corruttibili.
È un film sui valori, su quelli che si sono perduti, su nuovi stili di vita in cui l’etica, la natura delle cose e il rispetto sembra che non contino più niente.
Assandira è anche un film di denuncia, una critica al progresso a tutti i costi, un monito a non dimenticare ciò che ci rende umani e un invito a ritrovare la parte più bella di noi.
Assandira è vivere una catarsi per uscirne migliori e più consapevoli
Assandira è un film che deve essere visto, a cui abbandonarsi, attraversando insieme al protagonista Costantino tutta la sua sofferenza.
Si vive una vera e propria catarsi e, subito dopo, probabilmente vi capiterà di pensare che quello che avete visto sia una pellicola che meriti di entrare di diritto nei film cult del grande cinema italiano.
Buona visione