Giusi D’Urso è biologa nutrizionista, vive a Pisa ma è di origini siciliane. Dal 2008 a oggi ha pubblicato due guide turistiche per bambini, un romanzo breve, due testi di educazione alimentare e tre saggi di nutrizione.
Per quanto riguarda la narrativa, ha pubblicato alcuni racconti su Fernweh (per questa rivista anche un testo libero sui disturbi alimentari) e Storie a catinelle.
La rivistaCrack ha scelto un suo racconto per il numero speciale in collaborazione con “Play with food – la scena del cibo” e Torino Fringe Festival.
Collabora con il progetto L’Unione fa la forza Cultura con le sue video-recensioni sul canale dedicato. Si allena e sperimenta sul suo blog di scrittura #secondapelle.
– Lei, signora, notò salendo i cangaruni del cancello, vero?
– I cosa?
– I cangaruni. – La vecchia mostrò i denti gialli in una smorfia che doveva essere il suo sorriso – Vede, signora cara, il cancello è stato fatto in ferro battuto dove stavo prima, in Australia, terra di cangaruni.
– Ah, capisco.
La donna, rinseccolita e fasciata nel suo abito nero a lutto, mi fece strada fra le stanze chiuse che sapevano d’aria vecchia e dolciastra. Passo silenzioso, schiena ricurva e spalle vicine. Il profilo aquilino del viso magro mi ricordava le streghe di certe favole e la voce, mio dio, il verso di una cornacchia.
In realtà non li avevo notati per niente, i cangaruni. Mi ero accorta solo della forza estrema necessaria ad aprire il pesantissimo cancello nero con una banda decorativa in ottone che, adesso lo sapevo, doveva raffigurare una serie di canguri australiani.
– Entrasse, signora, senza complimenti. Apro le finestre e ci faccio vedere tutte le stanze.
Cercavo un appartamento arredato in affitto da qualche settimana. Mi ero trasferita da Venezia con una promozione al ruolo di direttrice della piccola filiale bancaria di Pizzonudo, Sicilia orientale. Dopo la separazione avevo chiesto il trasferimento in un luogo lontano. Il più lontano possibile, all’altro capo della Penisola. Appena arrivata mi ero sistemata alla meno peggio in due stanze e un bagno condivisi con Marcella, una giovane parrucchiera punk che aveva accettato di ospitarmi per un paio di giorni. Solo che i giorni ormai erano diventati quasi trenta e non ce la facevo più a dormire in cucina sul divano letto, a sorbirmi la sua musica underground a un volume insopportabile fino a notte fonda e a trovare i suoi capelli viola nel lavandino del bagno. In paese c’erano pochissimi appartamenti sfitti e trovare al volo quella sistemazione era stato un miracolo.
– Qui c’è il bagno.
– Al telefono mi aveva parlato di una doccia.
– Certo, signora, se si mette addritta nella vasca e apre l’acqua di supra, che cos’è?
– Capisco, niente box doccia.
– Ma lei deve stare tranquilla che in questa casa ci starà benissimo. Venissi qui che ci faccio vedere la cammera da letto.
Entrammo in una stanzetta con una finestra stretta sotto la quale c’era una rete con un materasso sopra. Accanto, un comodino e di fronte un armadio a due ante di uno stile barocco lontanissimo dai miei gusti, ma tutto sommato dignitoso. Accanto all’armadio, una piccola cassettiera lucida a tre cassetti. Sulle pareti c’erano dei poster che raffiguravano ponti e foreste. Probabilmente la terra dei cangaruni.
Marcella mi aveva concesso due cassetti del suo armadio e uno sportellino del bagno in cui entravano a malapena gli assorbenti e il deodorante. Il resto, spazzolino da denti, profumo, rossetto, matita per gli occhi, stava chiuso in un astuccio a fiori appoggiato su una sedia della cucina, accanto al divano letto. Tutte le mattine, appena sveglia, rifacevo il letto e lo chiudevo per bene. Trasferivo l’astuccio nella mia valigia e sistemavo la sedia intorno al tavolo. Poi preparavo la moka da tre tazze e andavo in bagno sperando che la mia coinquilina dormisse ancora. Raramente si svegliava a un’ora decente. Era capitato una, due volteal massimo. Ma quand’è che andava a lavorare, Marcella?
– Poi, se vuole, nella cucina ci può sistemare un altro mobiletto. Chi sacciu, per conservare qualche pacco di pasta e zucchero, le scatolette.
La vecchia aprì le ante del mobile sopra il piano cottura e fui investita da un tanfo stantio.
– Grazie, credo che sarà necessario.
– Dalla cucina si va nel balcone. Taliasse lei stessa il panorama che può vedere da qui. C’è puru a Muntagna col pizzo infuocato.
In effetti era l’unica cosa bella che avevo visto da quando ero arrivata in paese. Non che fosse un brutto posto, ma mi aspettavo certi panorami senza precedenti. Cartoline. Invece, no, quel piccolo centro abitato non mi aveva riservato grandi sorprese. Mi ero ripromessa, una volta ambientata, di prendermi qualche giorno per visitare la costa, andare verso Taormina e poi magari le Eolie. Avevo nostalgia dell’acqua.
– Da questo balcone si ricria pure la notte a guardare ‘a Muntagna. Che al buio, invece del fumo, vede la lava russa russa come sangue. – E così dicendo sorrise, mostrando di nuovo i denti gialli.
Nella cucina di Marcella c’era sempre l’odore pungente d’erba. Al mio rientro dal lavoro la trovavo quasi sempre sdraiata sul divano letto a fumare, i piedi nudi su uno dei braccioli e la tv accesa a un volume insopportabile. A volte aveva le cuffie alle orecchie, gli occhi chiusi e con un dito teneva il ritmo sulla gamba; altre, la musica pulsava in tutta la casa, diffondendosi dalla sua camera e facendo vibrare i vetri della finestra in cucina. In genere non si accorgeva nemmeno del mio rientro e ogni volta che affrontavamo il discorso di un mio trasferimento altrove se ne usciva con la frase “per me puoi stare quanto vuoi, così dividiamo le spese”.
Quanto sarebbe durato ancora quello strazio? Non erano bastati la separazione, Fulvio e le corna che mi aveva messo. Non era bastato averlo trovato in compagnia nel nostro letto, carponi, chino su un sesso che non era il mio. E nemmeno il trasferimento in quel buco di paese, era bastato. Ci voleva anche la coinquilina punk, tatuata fino al midollo, bucata di piercing persino sui mignoli e cannata come una liceale ad Amsterdam.
– Non è che mi deve dare subito una risposta, eh. – Disse la signora dei cangaruni, – Ci può pensare un poco. Una settimana? Va bene, una settimana?
– Sì, d’accordo.
– Ora, venisse al piano di sopra, a casa mia, che le offro un caffè e le racconto di mio marito.
Non avevo alcuna voglia di prendere quel caffè e soprattutto di ascoltare storie sdolcinate su mariti presumibilmente morti in paesi lontani, ma non volevo contrariarla troppo avendo previsto una convinta negoziazione sull’affitto. C’era quel bisogno impellente di traslocare al più presto e stare per conto mio. C’erano i miei trentotto anni, un lavoro rispettabile e il mio corpo che invecchiava. Volevo ripartire e ricomporre i miei cocci.
Mi guidò verso il secondo piano. Il vano scala era in penombra, feci il gesto di accendere la luce. La donna mi dette un lieve ma deciso colpetto sul dorso della mano e poi mi rivolse la sua smorfia-sorriso. Brivido elettrico sulla nuca.
– Che ci fa se saliamo così? Non ci vede? Qui in Sicilia la luce c’è pure di notte.
Rimasi muta e la seguii remissiva.
Arrivammo alla sua porta. Infilò le chiavi ed entrammo in un corridoio, quasi buio anch’esso, tranne che per un lieve bagliore rossastro proveniente da chissà dove. L’odore di incenso, o di una qualche essenza simile, mi diede un leggero capogiro.
Marcella era disordinata in un modo insopportabile. Al mio rientro, ogni pomeriggio, impiegavo almeno un’ora a rimettere a posto il suo caos fatto di maglie sfilate e abbandonate sul divano letto, sulle spalliere delle sedie, sul tavolo del cucinotto. In bagno, oltre ai capelli viola accumulati a ciuffi nel lavabo e sul pavimento, trovavo cartacce e involucri di merende e biscotti, briciole, resti di spuntini abbandonati sul bordo del bidet insieme a flaconcini di smalto nero, asciugamani arrotolati sul pavimento. Convivere con il suo stato selvatico mi era insopportabile. Capitava, a volte, di rinunciare a fare ordine e tornare fuori per assicurarmi la cena in una piccola trattoria sulla piazza principale. Un locale alla buona, ma pulito e tranquillo, in cui consumare un pasto decente in un ambiente dignitoso. La mia prima pasta con le sarde era stata un’esperienza mistica.
La signora mi guidò nella sua cucina, una stanzetta che odorava di soffritto, piastrellata con motivi geometrici arancioni e azzurri, in penombra.
– Si sittassi, che preparo la caffettiera.
Obbediente, presi posto al piccolo tavolo dall’incerata di girasoli e continuai a guardarmi intorno.
– Allora, che ne pensa dell’appartamento? – m’incalzò lei.
– Carino, senza dubbio. Se non le spiace vorrei parlare della cifra. Lei mi chiede una somma che, nonostante il buono stato delle stanze, mi pare eccessiva. Oltretutto, i consumi sono esclusi.
La donna continuò ad armeggiare dandomi le spalle e per un attimo mi parve di intravvedere un lieve sussulto come per una risata silenziosa. Poi disse:
– Lei, signora cara, deve considerare che per me affittare l’appartamento è come affidare la mia vita a qualcuno. Non è cosa facile, sa. Fra ‘sti muri c’è tutto quello che ho, pure l’anima del mio defunto marito.
Come l’anima del suo defunto marito? Che c’entrava la casa, che c’entravano le stanze dove avrei abitato con l’anima dei suoi morti?
Con tono incerto e imbarazzato, accennai le mie condoglianze proprio mentre lei si girava verso di me mostrandomi di nuovo i denti. Brivido. Nuca.
– Mischineddu, è morto in Australia dieci anni fa, mi lasciò sola. E allora decisi di ritornare qui. Ma non è che lo potevo abbandonare là, non mi potevo separare, sempre insieme eravamo stati. Il dolore era troppo forte.
– Immagino. Mi spiace.
Sospirò e il viso per un attimo si fece afflitto. Appoggiò un piccolo vassoio sul tavolo e versò il caffè in due tazzine.
– (Aspettassi che le prendo le zollette) – disse sottovoce sospendendo l’espressione addolorata. – Quindi – riprese piegando le labbra verso il basso, – lo feci imbalsamare e me lo portai qui. E siccome a volare mi scantava, tornai in nave. Madunnuzza santa, quanto mare, non finiva mai. Ma con la grazia di dio, siamo arrivati tutte e due sani e salvi.
Di solito chiedevo a Marcella di annotare le cose da comprare il sabato al supermercato sul post-it attaccato al frigorifero. Ma, niente, se ne dimenticava. Allora presi a farmi una mia lista della spesa e a sistemare ciò che acquistavo in un angolo del piccolo ripiano della cucina. Marcella però non sembrava avvezza all’organizzazione né al rispetto delle cose altrui. Ogni volta che le mancava qualcosa attingeva alla mia piccola dispensa a cielo aperto senza prendersi la briga né di rimborsarmi né tanto meno di sopperire alle mancanze con una scorta a sue spese. Le uniche cose che non poteva recuperare fra le mie erano le bottiglie di alcolici che ovviamente mi guardavo bene dal comprare. Lei era una spugna, me ne accorgevo dall’odore dei suoi vestiti abbandonati sul divano letto e dagli sproloqui che faceva con qualcuno al telefono in piena notte.
– E dove lo ha sistemato?
– Ma cui?
– Il suo defunto marito, dico, dove lo ha sistemato?
– Ah, non me ne sono separata mai. – Mi rispose soddisfatta la vecchia. – Siccome il comune di Pizzonudo non mi volle dare il permesso di tenerlo qui a casa, (beddu come da vivo era, un lavoro fatto bene), l’ho fatto cremare a Palemmo e me lo sono portato a casa.
E così dicendo si fece un rapido segno della croce che finì con uno schiocco sulle labbra delle dita della mano destra.
Cercai di riportarla alle questioni importanti.
– Capisco. Contenta lei. Allora, signora, per l’affitto…
– Taliassi che bella luce c’è nel pomeriggio a quest’ora. E che silenzio c’è nel quartiere. Lei deve pensare a tutto, non soltanto alle spese e alla metratura dell’appartamento. Io le affido una parte di me stissa, picchì questa casa la costruii con i risparmi di mio marito, custodito, mischineddu, nel fabbricato stesso. Questa casa è mio marito, è la sua anima.
Ero sempre più confusa e inquieta. La situazione e l’atmosfera non mi confortavano affatto, ma avevo bisogno di quell’appartamento per cui continuai a mostrarmi conciliante per raggiungere un qualche accordo e trasferirmi a breve.
– Va bene, senta, veniamoci incontro a metà strada. Diciamo che siamo d’accordo sulla cifra ma lei magari si faccia carico di qualche altro pezzo d’arredamento, anche roba alla buona, se vuole.
– Eh, signora cara, roba alla buona. Ca cettu, qui che vuole trovare? Non è che siamo nel capoluogo. In un paiseddu spiddutu semu.
Dietro le orecchie Marcella si era fatta tatuare una vipera la cui testa si adagiava a destra, il corpo cingeva la nuca e la coda si annodava in un ultimo ricciolo dietro l’orecchio sinistro. Sulle braccia invece frasi e iniziali di chissà chi; sulle caviglie motivi floreali a colori. Queste le parti che si vedevano da vestita. A volte però, dopo la doccia, arrivava in cucina in mutande, mettendo in bella mostra e senza l’ombra d’imbarazzo un drago sui seni abbondanti, un piercing a campanella all’ombelico e un altro sul capezzolo sinistro. Ogni volta che scorgevo un tatuaggio o un luccichio metallico sul suo corpo pensavo ai due nei che mi ero fatta togliere dal collo perché antiestetici e all’olio di mandorle dolci che spalmavo copiosamente sui miei capezzoli dopo ogni doccia. Mio dio, che ci facevo lì?
– Signuruzza cara, siamo persone per bene e ci mettiamo d’accordo, stia tranquilla.
Finito il caffè sentii un lieve rigurgito acidulo all’esofago. Lo buttai giù e accennai a concludere la trattativa, ma lei mi precedette.
– Piuttosto – disse a denti scoperti -, venga che le faccio conoscere mio marito.
Alzai una mano come per scusarmi e accennare con garbo a un rifiuto, ma lei insistette e mi invitò a seguirla lungo il corridoio dal bagliore rosso.
La verità è che il rigurgito acido mi aveva bruciato la gola, che non avevo nessuna voglia di fare altre inquietanti conoscenze e che ciò che la donna mi aveva raccontato, cangaruni e tassidermia compresi, mi avevano scombussolato a sufficienza. Volevo uscire all’aria e alla luce e scrollarmi di dosso quell’atmosfera lugubre. Ma lei mi prese sottobraccio per guidarmi di là. La mia nuca protestò all’unisono col mio stomaco.
– Ma tu un uomo ci ll’hai? – mi aveva chiesto Marcella una delle prime sere dopo il mio arrivo.
– Lo avevo. – Risposi senza andare oltre.
– No, perché pari na mugghiera, tu. Tutta perfettina sei. Mi vuoi diri che vi siete lasciati e sei venuta qua? – Rise sguaiatamente – E chi cazzo te l’ha fatto fare? Qua non ne trovi uno megghiu. Tutti stronzi sono.
Sorrisi senza rispondere e continuai a preparami un uovo lesso per cena. Ma lei era curiosa e continuò.
– T’ha messo le corna? – E senza attendere la mia risposta, proseguì. – Minchia, che bastardo. Na bedda fimmina comu a tia!
Continuai a scucchiaiare e feci finta di non aver capito. Dopo tutto, non sapere nulla di quella lingua misteriosa era plausibile. Invece, grazie al commissario Montalbano, di quel dialetto stretto capivo a sufficienza.
Mi sedetti a tavola a sgusciare l’uovo lesso mentre Marcella finiva di fumare la sua erba sul divano letto, sorrisi e risposi “Sì, è un bastardo”.
La donna in nero mi guidò nella stanza da cui diffondeva il bagliore rosso. C’era un vasetto di ceramica scura su una specie di tabernacolo circondato da lumini artificiali rossi da cimitero. Dietro, il dipinto di una madonna nera.
– La madunnuzza del Tindari, – fece lei indicando il quadro, – sono devota. Pure mio marito era devoto assai. E allora l’ho sistemato con lei, che lo protegge sempre, e lui così protegge a mia e alla nostra casa.
Mi tornò un altro rigurgito in gola e un sibilo mi ferì le orecchie. Cominciai ad accomiatarmi, indietreggiando e cercando nella penombra il corridoio e l’uscita. Sentii la nuca surriscaldarsi e la mia voce balbettare una frase di circostanza.
– Tardi le feci fare, mi dispiace. Ma ci tenevo a presentarle mio marito e anche per lui era importante vederla. Ora è tranquillo che mi metto in casa una brava persona.
Con il sibilo nelle orecchie la udii appena. Intanto, mentre il cuore mi martellava nel petto raggiunsi le scale e mi precipitai fuori.
Sulla strada verso casa ricordai mia madre e le sue frasi rassicuranti di un tempo, tipo “esistono solo nelle favole, tesoro”. E se invece le streghe esistessero davvero? Se s’infilassero nei pensieri degli adulti, persino nei loro sogni? Capii che non avrei mai potuto dormire notti tranquille con una di quelle creature al piano di sopra.
– E che è festa? Chi facisti? – Marcella rimase un attimo sulla porta con la sigaretta fra le dita.
– Niente, ho preso le pizze e delle birre fresche. Hai fame?
– E cettu!
Ci sedemmo a mangiare insieme, e fu la prima volta dal mio arrivo.
– Allora, ci annasti dalla strega niura? Hai vista quanto è pazza?
Sorrisi, addentai la pizza e feci un gesto con la mano per dire lascia perdere.
– Oh, che hai nel braccio? Che ti facisti?
– Niente, dai.
– Noooo, un tatuaggio? E com’è stu fatto? – Rise di gusto e cominciò a masticare con la bocca aperta.
La birra andò giù facile. Ne bevvi parecchia e mi sentii allegra e leggerissima. Ridemmo per le battute sconce di Marcella e per i suoi rutti senza vergogna. Sparecchiammo e ci buttammo sul divano con le ultime lattine. Poi, lontana mille miglia da Venezia, dal bastardo e dai cangaruni, fumai di gran gusto la mia prima canna.
Marcella mi ha detto che presto andrà a vivere col ragazzo con cui esce da qualche mese. Me lo ha fatto conoscere ieri sera e mi pare un tipo a posto. Una specie d’armadio coi bicipiti tatuati e una barbetta caprina che finisce con una piccola treccia verde lime. È arrivato a casa con un vassoio di cannoli. Nguantera, dicono qui, ‘na nguantera di cannoli alla ricotta. Abbiamo riso per tutta la sera, bevuto e fumato sul divano letto fino a tardi. Quando è andato via, Marcella e io abbiamo chiacchierato a lungo: ho scoperto che ha studiato all’accademia orafa di Catania ma che non è riuscita ad aprire un laboratorio tutto suo.
– E il lavoro di parrucchiera?
– Ah, quello l’ho imparato da piccola. Mia mamma mi mandava a maistra dalla sua, dopo la scuola.
– Tipo campo solare estivo.
– Campi solari estivi? -rise di gusto -. Ca u suli c’è sempre, estati e invernu, e dopo la scuola i carusi possono stare a giocare nei campi senza bisogno di niente. Ma mia mamma voleva che mi imparassi un mestiere di fimmina.
Ha acceso l’ennesima sigaretta e ha continuato a raccontare.
– Lei lavorava tutta la giornata nell’azienda della frutta a Sinagra e mi voleva sapere in una casa, straccurata, mangiata e ‘nsignata. E così mi affidò alla sua parrucchiera che era pure un’amica di famiglia.
Adesso Marcella fa la messa in piega a domicilio alle signore di Pizzonudo che non possono andare dal parrucchiere. Sua madre ogni mese le manda un piccolo aiuto. E così sta mettendo da parte i soldi per aprire il suo laboratorio d’oreficeria.
– Secunnu tia l’orefice è un mestiere di fimmina? A mia mi piace.
Intanto andare a vivere insieme al suo ragazzo le sembra l’inizio di qualcosa.
– È un bel mestiere. – dico. – Vedrai che prima o poi… E dove andrete a stare? Come ti piacerebbe fosse la vostra casa? – le ho chiesto, incrociando le gambe e gustando un frammento di canditi rimasto sul vassoio.
– Boh! – mi ha risposto continuando a fumare -. Videmu, dove troviamo andiamo.
La guardo, l’ascolto e penso all’anima delle case. Quel senso primitivo e composito, fatto del ricordo di un marito amato, della nostalgia di una terra lontana, della voglia di farcela da soli, di un innamoramento, di una prospettiva. È il senso per cui non vedi l’ora di rientrare dopo una giornata pesante, la bussola interna che ti orienta nelle stanze e ti fa trovare le cose al buio.
D’improvviso mi sento spossata e priva d’argomenti.
– Mi sa che ho sonno – dico.
Marcella spegne la cicca sulla ‘nguantera, si stiracchia e si alza per lasciarmi il divano letto. Si avvia verso la sua camera biascicando buonanotte. Sento il rimbombo dei suoi piedi scalzi dirigersi verso il bagno. Fa la pipì al buio e poi va a dormire.